“…non c’è forse contrada per tutto l’Appennino che abbia per tempo stesso tanta maestà di monti e tanta bellezza di marine…”
Così Giustino Fortunato, storico, economista, naturalista, descrive i Monti Lattari, che formano l’impalcatura della Penisola Sorrentina, tra la piana di Sarno e il golfo di Salerno. Si tratta di rilievi aspri e scoscesi, con pendii molto ripidi che digradano verso il mare con coste a falaise alte e inaccessibili, intervallate da qualche spiaggia.
Giustino Fortunato nel 1877 completò la traversata dei Lattari in 3 giorni, da Cava dei Tirreni a Punta Campanella. Nessuna descrizione tratta da un resoconto di un suo articolo che fu pubblicato sulla rivista “L’Appennino Meridionale”, potrebbe rendere meglio l’incanto della traversata:
“…salendo per le falde di quel vario andirivieni, che da ogni lato si contorna più o meno alpestre ma sempre ricco di vedute, si scorge come per incanto l’azzurro specchio dell’acqua distendersi qua e là a perdita d’occhio, e la riva sottoposta accerchiarsi in mille guise di rupi stagliate, di prode luccicanti, di cupi recessi dal color verde smeraldo o cobalto di lapislazzuli…”
E così, accomunati dallo stesso desiderio di conoscere il territorio e non solo dal punto di vista paesaggistico, abbiamo voluto ricalcare i passi in linea di massima di G. Fortunato, percorso di cui descriveremo le tappe a nostro giudizio più interessanti, per emergenze storiche e naturalistiche descritte da un appassionato dell’epoca.
L’inizio del “viaggio” avvenne alle ore 6 del 15 di ottobre del 1877 nel “ più bel mattino di autunno” da un vallone di Cava dei Tirreni, avendo come guida per il primo giorno di ascensione un vecchio taglialegna che un notabile del posto, il dottor Pisapia, aveva avuto cura di procurare al nostro escursionista. Il sentiero saliva dolcemente fra il monte Finestra a sinistra ed il monte Albino a destra fino ad un “colle selvoso” a circa 900 metri di altezza. Di qui il nostro Giustino seguì un sentiero a mezza costa che dominava tutta “l’aspra valle di Tramonti”, per giungere, intorno alle 9, al “passaggio di Chiunzo”. Dopo circa un’ora giunse alla “Porta di Corbara” dalla cui “scoscesa imboccatura” potè gettare uno sguardo sulla pianura del Sarno e sulla “morta Pompei”. Dopo un a breve sosta, il nostro iniziò l’ascesa della “mole erta” del Monte Cerreto. Giunto sulla cima egli fu abbagliato dalla forte luminosità che pervade questo luogo, la quale quasi incute un senso di smarrimento e di meraviglia. Vale la pena riportare a tal proposito le testuali parole dell’Autore che ben sintetizzano le sensazioni suscitate da un luogo che anche noi, moderni escursionisti, riconosciamo come dotato di un fascino quasi magico : “v’era lassù tanto splendore di luce, che gli occhi ne restavano abbagliati; brillava ogni cosa nell’atmosfera vaporosa, le pendici ondeggianti, le bianche città della riva, i due golfi sparsi qua e là di vele e dirimpetto, a sole sei miglia di lontananza, spiegavansi luminosi i torrioni dentellati di Monte Sant’Angelo”.
Dopo essere disceso dal Cerreto, il nostro attraversò il pianoro chiamato all’epoca “Aja del Cerreto” ed oggi conosciuto come “piani del Megano”; si diresse quindi in direzione del Monte Cervigliano e, dopo averne in parte percorso le pendici, sostò alle sorgenti dell’Acqua Brecciata, posto che domina il vallone di Castello e l’abitato di Gragnano. Ripreso il cammino, dopo circa un’ora, apparve al nostro escursionista a mezzogiorno la sottoposta conca di Agerola “tutta verdeggiante co’ suoi piccoli villaggi dai tetti acuminati di castagno, solinga e tacita come una remota vallata delle Alpi”. Lì, nel casale di Ponte il nostro terminò la prima tappa del suo “andar per monti” sui Lattari, ospite in una non meglio specificata “Casa Cuomo”.
Il mattino seguente il nostro escursionista inizia il camino alle ore 8 circa , avendo come guida un “campagnuolo sorrentino”. In circa un’ora guadagna la cresta che separa Agerola dal vallone di Pimonte. La segue in direzione della concavità sulla quale sovrasta l’imponente mole di Sant’Angelo a Tre Pizzi “tutta screpolata nelle pareti a piombo e tagliata in alcuni punti da profonde scanalature delle acque piovane”. Seguendo un esposto ciglio lungo le pareti del profondo vallone, giunge, infine, al sentiero che conduce alla sorgente dell’Acqua Santa. Di qui prosegue fino alla sommità del Picco San Michele (oggi chiamato “Il Molare”), che con i suoi 1453 metri è la cima più alta della catena dei Lattari. Giunto in vetta, in un primo momento le aspettative del nostro Giustino furono deluse dalla presenza di folti nubi che salivano dalla” baia meridionale” , lasciando solo a settentrione uno squarcio nel quale si poteva intravedere la cima del Terminio. Ma dopo poco un turbinio di vento ripulì l’aria dalle nuvole e consentì al nostro di guardare “le balze sottostanti che si mostrarono ad una ad una, meraviglioso spettacolo per se stesse”. A questo punto il nostro, rapito dalla bellezza di tale spettacolo della natura esprime con forza il pensiero che “la montagna è la regina della natura, regina indomita e superba perché è come il simbolo della sua forza, del suo mistero, della sua purezza incontaminata: la prima che il sole imporpori, è l’ultima che esso abbandoni”.
Lasciati questi “aerei pensieri” e dopo essersi ristorato, il nostro riprese il cammino verso mezzogiorno costeggiando le “arenose creste di libeccio”. Discese per circa due ore i “dirupi scheggiati della Conocchia” in fondo ai quali luccicava la marina di Positano. Giunto al valico di Santa Maria a Castello, si diresse in tutta fretta verso il Monte Comune, sulla cui sommità, dove effettuò una breve sosta, giunse intorno alle 4 del pomeriggio. Ben presto riprese il cammino e, passando per l’insenatura della “Chiossa”, giunse infine sulla sommità del Vico Alvano quando “già il sole inclinava su Napoli all’occaso”, godendo della vista “di tutto il piano di Sorrento”.
In breve discese dal Vico Alvano per dirigersi alla Villa di San Pietro a Ceremenna dove fu “benevolmente accolto” dal principe Colonna di Summonte.
Il terzo giorno il nostro escursionista si mise in cammino all’alba; il cielo era coperto da grosse nubi, “ma una brezza sottile assicurava tutt’ora del buon tempo”. Si diresse verso i Colli di Fontanelle, salì per una viuzza alla Maracoccola e quindi, dopo due ore, giunse alle “amene pasture del villaggio di Sant’Agata”. Di qui proseguì, passando per la collinetta di Santa Maria della Neve, fino all’estremo borgo di Termini. Quindi ascese “ambo i cocuzzoli” del Monte San Costanzo, sul quale, intorno alle 10 effettuò una breve sosta. Riapparso il sole fra le nuvole, il nostro potè ammirare il bellissimo paesaggio che così descrisse: “chiudevasi ai nostri piedi, silenziosa e profonda, la cala verdognola di Jeranto e lungi all’oriente di indoravano gli isolotti dei Galli, le Sirenuse paventate da Ulisse; d’innanzi, oramai a tre miglia in linea retta, contornavasi tutta, deserta e fantastica, la Capri Tiberiana.
Dopo un’ora circa giunse infine alla Campanella “un dì sacra a Minerva”, meta finale di questa escursione ottocentesca sui Monti Lattari. Il ritorno avvenne lungo la stradina posta sul fianco occidentale del Monte San Costanzo che conduce a Termini. Di lì proseguì per” la via vecchia di Massa Lubrense sino a Sorrento”. Di qui si mosse alle due in carrozza alla volta della stazione di Castellammare dove prese il treno per Napoli “col proposito, metà speranza e metà desiderio, di tornare altre volte sui Monti Lattari”.